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La Letteratura, un bel modo di scoprire il mondo.

Jean-Marie Le Clézio

D 11 novembre 2008     A par Viktor Kirtov - Raphaël FRANGIONE - C 0 messages Version imprimable de cet article Version imprimable    ................... PARTAGER . facebook


« J’ai le sentiment d’être une petite chose sur cette planète
et la littérature sert à exprimer ça ».

Jean-Marie Gustave LE CLÉZIO.

All’indomani dell’attribuzione del prestigioso premio Nobel della Letteratura 2008 allo scrittore francese J-M.G. Le Clézio ci aspettavamo un’accoglienza e un riconoscimento unanimi che mettessero in risalto il valore letterario dei suoi numerosi scritti e che sottolineassero nel contempo la funzione educativa della Letteratura. Ci è sembrato, invece, di cogliere negli interventi, nelle interviste e negli articoli apparsi sui media un certo stupore sul nome di Le Clézio, autore certamente prolifico i cui romanzi, però, non figurano tra quelli più venduti e più letti.

La Letteratura, un bel modo di scoprire il mondo.

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J.M.G. Le Clézio - Noble nomade, Nobel

La Letteratura, un bel modo di scoprire il mondo.

J.M.G. Le Clézio (Nizza,1940)

Il silenzio, poi, con cui parte dell’intellighenzia francese e non solo ha accolto la sua nomina la dice lunga sul grado di simpatia che l’autore del « Désert » e di « Procès-verbal » gode tra i suoi stessi colleghi e presso il pubblico dei lettori, attratti evidentemente da altri generi ritenuti forse più significativi, quali il cinema e Internet.

Ce « beau vagabond » (J-L. Ezine, Le Nouvel Observateur, N°2293), « d’aristocrate new age », di scrrtamente il carattere di Le Clézio, troppo misurato e discreto, non contribuisce a renderlo uno scrittore popolare. Il suo linguaggio « simple, concentré, vrai » (Ph.Sollers, Le Monde 02.06.1995) descrittivo quasi flaubertiano mal si adatta ai tempi necessariamente rapidi del mezzo televisivo e al clima a volte « bruyant » e eccessivamente polemico delle conversazioni in video.

Ciò che i suoi connazionali non accettano è quella sua aria di ittore della solitudine e de « l’errance » che non è e non vuole essere in sintonia con la società dell’Occidente. Anzi ne prende le distanze, preferendo far rivivere mondi scomparsi dell’America latina, parlare dell’Africa e della condizione di miseria e di emarginazione degli indigeni, descrivere pianure immense ma aride, cieli tersi e profumati, montagne alte e prive di vegetazione, notti « si longues, si belles , pures.. », coste e mari d’incanto, piuttosto che raccontare Parigi, le sue vie, le sue case, i suoi caffè « grouillants de vie », la sua storia passata e le complesse realtà « banlieusardes » di oggi.

In altre parole molti lettori non condividono l’idea di contemporaneità e non si ritrovano nella scelta di Le Clézio di fuggire dalla società dei consumi, da un certo modo di intendere il progresso, dalla cosiddetta « globalizzazione », per riscoprire il mondo dei « déracinés », per ridare voce a tutte quelle « sages » popolazioni che hanno un passato « lumineux » ma che vivono ai margini, in case « ordinaires », circondate da file di « palmiers » a difesa dalla violenza delle stagioni.

Ritorno al mito terzomondista delle responsabilità occidentali per spiegare la distruzione e la negazione di civiltà meno « savantes » ?
Forse, ma non possiamo non cogliere nelle parole di Le Clézio, mai aggressive, un sentimento di amarezza e di tiepida rivolta personale contro le culture dominanti.

Niente di rivoluzionario, ben inteso, ma l’essere scrittore impone a Le Clézio di assumersi prima di tutto una responsabilità personale, quella di scrivere testi artisticamente validi, culturalmente stimolanti e corrispondenti al suo sentire particolarmente vicini luoghi selvaggi apparentemente senza futuro ma pregnanti di umanità e di cultura orale.

La Letteratura cessa per Le Clézio di essere puramente informativa e documentale per assumere un ruolo di denuncia delle iniquità e delle sofferenze rivendicando per quelle civiltà dimenticate il valore del rispetto delle diverse tradizioni umane e culturali.

Richiamando costantemente l’attenzione del lettore sull’attualità e sui buoni sentimenti, Le Clézio vuole orientare le scelte dei giovani verso la speranza per un futuro nuovo e più libero. Verso questo orizzonte si muove infatti la giovane marocchina Lalla, protagonista del Désert, quando lascia la sua terra natia per sfuggire alla monotonia e alla solitudine opprimenti con in testa un’idea « fétiche », inseguire in Europa uno stile di vita confacente alle sue aspirazioni.

Ma Lalla, dopo la sua triste esperienza a Marsiglia, si rende conto che non riesce a vincere quel senso di frustrazione e di inadeguatezza che l’accompagna dalla nascita. Lalla, dopo aver constatato le malvagità e le brutture del mondo cosiddetto « civile », ritorna nel suo deserto delusa e vinta ma felice di veder nascere la sua bimba ai piedi di un albero, simbolo del legame ancestrale con la sua terra d’origine.

Alla maniera di Bruce Chatwin, Le Clézio comincia, così, un lungo viaggio con quello che lui stesso chiama « l’esprit des îles », accumulando una ricchezza di emozioni, di immagini, di « ruines » e di abbandoni che ritroveremo nei suoi numerosi racconti riproposti con scrupolosa fedeltà e lontani da ogni conformismo.

D’altro canto la passione del viaggiare è parte integrante del suo modo di essere, ne segna lo svolgimento e alimenta la sua voglia di scrivere e la sua creatività. « Si je ne voyage plus je n’écris plus », dice « ce Mauricien » ecologista convinto per il quale visitare luoghi sperduti vuol dire spostare in là i limiti del proprio sapere, della curiosità. È ricercare una nuova utopia, un’idea liberatrice che poggi su di un rapporto con « l’humanitude » più leale e più rispettoso delle differenze, un senso della vita più autentico, più « charnel », che lo allontani dalle « mesquineries » e che lo sostenga nella lotta contro i soprusi e l’indifferenza delle società post-coloniali. La sua vita è indissolubilmente legata alla scrittura e al viaggio. Nato nomade, Le Clézio resterà nomade entusiasta di descrivere senza filtri ciò che vede per ricercare le tracce di un tempo . « Un explorateur d’une humanité au-delà et en dessous de la civilisation régnante... un écrivain de la rupture », si legge ben acutamente nella motivazione del premio.

D’altronde la scrittura è sempre una « rupture » rispetto alle abitudini, è cercare di vedere ciò che si nasconde dietro le cose, dietro le evidenze sicchè non si saprebbe immaginare una Letteratura che non generi cambiamenti, che non scuota le coscienze e che non aiuti alla riflessione e al confronto.

Scrivere è fuggire dalla solitudine delle convenzioni, dagli stereotipi che limitano la libertà individuale, dai mille rischi di omologazione che soffocano ogni spazio di creatività. È ricerca di armonie, di spazi selvaggi e incondizionati. Scrivere è riprendersi la libertà di sognare, di perdersi al largo delle coste africane oppure restare nella cabina di un battello a riportare su due quaderni di scuola le proprie emozioni. È passare dal « vacarme » assordante delle città metropolitane al silenzio del deserto. È acquisire più certezze di sé per leggere il mondo senza ambiguità né pregiudizi.

E leggere di Letteratura è con-fondersi,è ritrovarsi nei pensieri e nei desideri altrui, abbandonarsi allo scorrere del tempo per meglio misurare la propria identità.

Fare Letteratura è quindi un’urgenza educativa. La visione nichilistica con la quale è iniziato questo terzo millennio suggerisce che forse leggere di Letteratura è essenziale. In un tempo di crisi d’identità dove ciò che si propone è spesso percepito come ostile, dove il virtuale è più vero del reale, è fondamentale invogliare i giovani a ripercorrere la propria storia, a conoscere realtà culturali diverse e anche lontane ma non per questo inaccessibili.

*

Le Clézio ci ha dimostrato con i suoi romanzi che senza storia, senza radici, non può esserci vera Letteratura, non è possibile comprendere il mondo. La Letteratura non ci ripara dai disordini e dalle violenze ma ha la capacità di instillare in chi la legge il desiderio di « passer ailleurs » fornendogli una passerella che gli permetta di non sentirsi più in ostaggio dei conflitti quotidiani.

Il testo letterario si inscrive così in questo salto verso l’indicibile, il fantastico, il simbolico, verso quelle realtà periferiche distanti dalle culture egemoniche ma pur sempre legittime, « innocentes » e portatrici di vera umanità.

E allora, accostarsi all’opera di J.M.G. Le Clézio, il più mistico e il più puro degli autori contemporanei, è penetrare un mondo lontano ma vivo alimentandosi de « sa force guerrière, incohérente » e bevendo a lungo « à sa source de vie et de mort, et rester invincibles » (La fièvre, J.M.G. Le Clézio), senza attendersi risposte definitive ai diversi e nuovi problemi che affollano il nostro vivere quotidiano, con la convinzione, però, che senza i suoi libri capiremmo poco della realtà, poco delle nostre paure, delle nostre incertezze.

Prof. Raphaël FRANGIONE


J.M.G. Le Clézio
Noble nomade, Nobel

par Jean-Louis Ezine
Le Nouvel Observateur, N° 2293, 16/10/2008

A 16 ans, il rêvait d’une carrière dans la bande dessinée. Il faut dire qu’il y avait du monde à croquer, à Nice, où les hasards d’une escale l’ont fait naître en 1940. Où il a grandi. Les quais encombrés de barriques d’huile, de ravaudeurs de matelas et de chevaux en partance pour la Corse avaient encore le charme d’un décor napolitain, populeux désordre où clochards et chalands animaient l’arrière-boutique des mondes devinés. Mais le héros véritable de sa jeunesse n’était pas de cette petite communauté indigène. Il ne s’attrapait pas non plus d’un coup de crayon, et en vérité il ne cessait de le fuir, par-delà la mer qu’il contemplait tous les jours, la mer toujours dilapidée qu’il voulut un jour faire classer monument historique.
Son héros, celui qui à la fois peuple ses romans et ne cesse de déserter le monde et ses intrigues, c’est l’horizon. Il a pensé être marin aussi et il n’est pas un de ses livres qui ne reflète cette quête inassouvie de la limite, de la borne, de la frontière. De « l’autre côté », pour lequel sa passion de voyageur ne s’est jamais éteinte. Tout a commencé lorsqu’il a embarqué, à 6 ans, sur le « Nigerstrom », un cargo de la Holland Africa Line qui reliait l’Europe à l’Ouest africain. Dakar, Lomé, Cotonou. Rien ne lui échappe de ce théâtre flottant. Sur les ponts supérieurs, les administrateurs coloniaux et les officiers jouent aux fléchettes. Mais ce qui le fascine, c’est le spectacle des Peuls, des Ouolofs et des Mandingues martelant aux escales la coque haute comme une falaise, afin d’en détacher les plaques de rouille et de s’offrir par ce moyen leur croisière vers d’autres chantiers calamiteux. Il ne cessera plus jamais d’entendre battre ce coeur de ferraille, qui résonne dans la soute comme un bourdon de cathédrale.

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Le tout jeune Jean-Marie Gustave en est si ému qu’il rédige sur le bateau son premier « texte », auquel il donne un titre qui ressemble déjà aux vrais : « Quand donc partez-vous, monsieur Awlb ? » Son premier roman, en somme. L’aventure, déjà, ne lui suffit pas. Il ne lui faut pas que la beauté des îles au couchant et la magie des cartes marines, avec grincements dans la mâture et sifflement des alizés dans les aiguilles des filaos. Il lui faut « l’autre côté », celui où s’est perdue la clé des agitations humaines. A l’époque, le garçon allait à la rencontre d’un père qu’il ne connaissait pas encore, pour cause de guerre mondiale. Un médecin de brousse, auprès de qui il apprendra à marcher pieds nus. Il voit les banlieues en ruine, les chiffons de tôle, les chiens errants et les troupeaux en marche, il voit la vie qui s’éboule dans les décombres du temps, l’absurde et magnifique vieillesse du monde. Nomade il devient, nomade il restera. Des morceaux de romans, il en écrira encore, une quinzaine peut-être, de cette écriture déjà limpide, où les pages les plus heureuses ont toujours l’air de s’envoler comme les ibis devant l’orage. D’ailleurs il les jette, les manuscrits.
C’est en 1963 que l’orage éclate pour de bon, quand paraît « le Procès-verbal », écrit en quatre mois au sous-sol du Café de l’Univers, un établissement niçois qui donne sur la plage. On parle de « lyrisme attentatoire », ça doit être grave. Coup de tonnerre sur la télé de Petula Clark et du petit train d’Interludes, on découvre à l’écran un grand blond à l’air sauvage. La référence de l’époque, en matière de grand blond à l’air sauvage, c’est Steve McQueen. On trouve donc au nouveau venu un air de Steve McQueen. Le prix Renaudot est un triomphe. Aujourd’hui encore, les amateurs de grands millésimes vous parlent du Renaudot 63 comme on évoquerait le mouton-rothschild 49 ou le petrus 61 . Au Concours général, l’élite lycéenne est invitée à plancher sur cette pensée du lauréat : « L’homme n’écrit pas seulement avec des mots. Tous les langages ne seront pas de trop pour entendre ce qui se dit chaque jour. Commentez. » L’auteur, traduit bientôt sur toute la planète, parle l’anglais et l’espagnol, mais un dictionnaire ne le quitte plus : l’Audubon, pour le langage des oiseaux.

Il est déjà un écrivain culte, mais quand on le questionne sur son ambition, il répond : écrire un roman si fort qu’il ne pourrait pas en tuer le héros sans s’attirer des insultes par sacs postaux entiers. La légende du beau vagabond a tout recouvert, et ses crimes sont restés impunis, mais il a gardé son mystère. Autrefois, la rumeur allait bon train. On croyait voir son fantôme en maître-nageur à Panama (ce qu’il ne fut jamais), en moine bouddhiste dans un monastère thaïlandais (il a failli se retirer à Songkhla, dans un ermitage malais), en pirogue avec les Indiens Emberas d’Amérique centrale (il fut leur hôte dans les années 1970). Au nombre de citations, il est un des écrivains les plus prisés du Petit Robert, où un avertissement du lexicographe le fait apparaître avec Gambetta, Babeuf, Brassens et de Gaulle parmi « les auteurs les plus célèbres, pour lesquels on n’a pas précisé le prénom », mais J.M.G. reste le sésame de tous les possibles, la formule des intrigues en partance. « Si je ne voyage plus, je n’écris plus », dit-il. Il est peut-être à Albuquerque, sur l’île Maurice ou en Bretagne. Son nom veut dire « les enclos » en langue celte, mais il n’a pas encore capturé l’horizon.

Ses dates

1940. Naissance à Nice.
1963. Prix Renaudot pour « le Procès-verbal ».
2008. Prix Nobel de littérature.

Jean-Louis Ezine
Le Nouvel Observateur

Nota : Jean-Louis Ezine est l’auteur d’un livre d’entretiens avec Le Clézio : « Ailleurs », Ed. Arléa (poche).
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